 |
 |
 |
 |
G. Lanfranco: Norandino e Lucina scoperti dal Ciclope |
 |
 |
 |
 |
 |
 |
 |
 |
 |
J.A.D. Ingres: Ruggiero salva Angelica |
 |
 |
 |
 |
 |
 |
 |
Il poema ariostesco, tra tanti personaggi, episodi, duelli e battaglie,
imprevisti incontri, è anche continuo susseguirsi di mostri e di magie,
di castelli incantati, di viaggi sulla luna.
Il meraviglioso, magico o fantastico, entra così naturalmente nella
vicenda che un cavallo alato, una pianta che parla, un pazzo che
sradica gli alberi non destano stupore e, anzi, si inseriscono con
grande armonia nella natura, riportandosi a dimensione umana, in un
perenne intrecciarsi di realtà e sogno.
Il “magico” pone in risalto l’imprevisto, imprime alla vicenda un più
intenso ritmo avventuroso. È nel IV canto, con Atlante,
che trova spazio nel poema il meraviglioso e le vicende dei personaggi
molto spesso ne sono determinate: c’è l’anello che rende vani gli
altrui incantesimi, lo scudo con cui Ruggiero libera Angelica,
l’ippogrifo, il castello.
L’arte
della magia ci viene presentata da Ariosto come un allargamento della
finzione, perché inganna rendendo visibile quello che non si vede e
reale l’inesistente. Il castello di Atlante non esiste (anche se il
Poeta gli fornisce una concreta consistenza), è un’illusione, che
svanisce con un solo gesto; è anche la rappresentazione di un ideale di
vita opposto alla guerra, una prigione dorata che coloro che da essa
vengono liberati mostrano di preferire alla libertà recuperata.
Ma
l’unione di magico e verosimile è evidente soprattutto nella
descrizione dell’ippogrifo, non pura illusione, che agisce anche
indipendentemente dal volere di Atlante. Il narratore ne dichiara
la naturalità reale, le ascendenze, il remoto e fantastico luogo
d’origine, il lungo addestramento. Il cavallo alato si alza in volo e
poi scende fino a terra, ruotando e volteggiando negli immensi spazi
della poesia.
“Non è finto il destrier, ma naturale,
ch'una giumenta generò d'un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l'ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l'altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,
molto di là dagli aghiacciati mari.
Quivi per forza lo tirò d'incanto;
e poi che l'ebbe, ad altro non attese,
e con studio e fatica operò tanto,
ch'a sella e briglia il cavalcò in un mese:
così ch'in terra e in aria e in ogni canto
lo facea volteggiar senza contese.
Non finzion d'incanto, come il resto,
ma vero e natural si vedea questo.
Del mago ogn'altra cosa era figmento,
che comparir facea pel rosso il giallo;
ma con la donna non fu di momento,
che per l'annel non può vedere in fallo.
Più colpi tuttavia diserra al vento,
e quinci e quindi spinge il suo cavallo;
e si dibatte e si travaglia tutta,
come era, inanzi che venisse, istrutta.”
(C. IV, 18-20)
>torna in alto |